“Solo quando ci rompiamo, scopriamo di cosa siamo fatti.”
La parola kintsugi si scrive con i kanji 金継ぎ, che rispettivamente significano “oro” (金) e “aggiustare” (継ぎ). Letteralmente possiamo tradurlo con “aggiustare con l’oro” o anche “toppa dorata”. Certe volte, soprattutto in Occidente, si può incontrare anche il termine kintsukuroi, scritto con i kanji 金繕い e tradotto con “oro” e “riparatore” (繕い), quindi “riparatore che usa l’oro”.
Si tratta di una pratica giapponese che consiste nell’utilizzo dell’oro o della lacca con polvere d’oro per riparare oggetti, saldando assieme le superfici ed esaltandone le imperfezioni.
Ogni superficie riparata con la tecnica artistica del kintsugi presenta un diverso intreccio di linee dorate che diventa unico e irripetibile per la casualità con cui la superficie stessa si è frantumata o incrinata.
Gli artigiani di kintsugi sono rarissimi al di fuori del Giappone in quanto il metodo è molto più antico di quanto si potrebbe credere: le prime rudimentali tecniche di riparazione del vasellame giapponese risalgono al periodo Jomon, una larghissima era che spazia dal 10.000 fino al 400 a.C. Proprio durante questo arco storico e proprio in Giappone si hanno i reperti del più antico vasellame del mondo, oggi custoditi nei musei a Tokyo.
L’arte del kintsugi risale al quindicesimo secolo ed è associata alla figura di Ashigaka Yoshimasa (1435-1490), ottavo shogun dell’epoca Muromachi. Durante il suo governo il Giappone vide la nascita di un movimento culturale ispirato alla filosofia zen, alle cui origini risale anche la cerimonia del tè. Narra la leggenda che durante il cerimoniale del tè si ruppe la preziosa tazza utilizzata da Yoshimasa, il quale incaricò i suoi artigiani di ripararla in modo che mantenesse inalterata la sua bellezza. Gli artigiani decisero allora di dare risalto alle crepe della tazza con resina e polvere d’oro anziché nasconderle.